di Daniela Freddi
Pare ormai certo che all’inizio dell’autunno, a brevissima distanza dalle elezioni europee ed amministrative, si voterà anche per il rinnovo del governo dell’Emilia-Romagna. I tempi, dunque, sono serrati e ci si colloca sostanzialmente in un percorso di continuità tra i diversi appuntamenti.
Per questa ragione, prima il Sindaco di Bologna Matteo Lepore e subito dopo il Segretario regionale del Partito Democratico Luigi Tosiani, hanno rilanciato l’idea di una Fabbrica del programma, in vista delle prossime elezioni regionali. La Fabbrica, di prodiana memoria, vuole rappresentare un processo di elaborazione politica che aiuti e, in un certo senso persino imponga alle forze politiche coinvolte, una fase di ascolto della società e un conseguente intervento sul fronte programmatico.
Se si può ritenere sempre opportuno mantenere “l’orecchio a terra” da parte del decisore politico, per orientare l’azione verso una risposta puntuale ai bisogni, le istituzioni e la politica si muovono soprattutto per cicli di programmazione che sono solo in parte modificabili lungo il percorso.
Dunque, sia perché ci si avvia alla conclusione di un ciclo politico durato dieci anni, sia perché le trasformazioni intervenute durante il periodo sono state profonde, si rende quanto mai necessaria una fase di riflessione, discussione e ove necessario, revisione. Ma non c’è solo il passato da considerare, c’è soprattutto il futuro e il nuovo e mutante contesto economico, sociale, ambientale all’interno del quale le politiche vanno ad agire.
Se volgiamo lo sguardo agli ultimi venti anni, possiamo dire che l’Emilia-Romagna, ben supportata dalle sue politiche di sviluppo, ha superato la grande prova della globalizzazione. Una regione manifatturiera, con tessuto di piccola impresa prevalentemente in comparti maturi, poteva uscire con le gambe rotte da quel passaggio, che ha visto lo spostamento massivo della produzione a basso valore aggiunto verso l’Est. L’ecosistema della ricerca e dell’innovazione, la principale politica di sviluppo regionale degli ultimi venti anni, ha decisamente sostenuto la tenuta competitiva del sistema economico locale.
Se il riposizionamento alla luce della globalizzazione era dunque la principale sfida di due decenni fa, qual è quella di oggi? È la medesima oppure vediamo avanzare nuove “missioni” da compiere?
Le analisi sono ormai consolidate e portano a sottolineare come i principali nodi siano tutti sul fronte sociale ed ambientale: la povertà materiale e immateriale in aumento, l’esclusione sociale, le disuguaglianze, l’invecchiamento della popolazione, la transizione ecologica e digitale e i relativi impatti sulle persone.
Davanti a queste trasformazioni, da un lato abbiamo la necessità di conservare l’impianto delle policy per l’innovazione fin qui sviluppate perché ancora necessarie in un quadro di competizione globale, dall’altro l’urgenza di comprendere che queste non sono più sufficienti e hanno bisogno di revisione ed integrazione, anche profonde.
Per farlo occorre rilevare che le fragilità sociali che viviamo oggi, e che prevediamo in forte espansione domani, sono profondamente collegate, finanche causate, dal modello economico. Non solo l’attuale funzionamento del sistema capitalistico ha causato larga parte delle problematiche richiamate, ma rischia esso stesso di restarne vittima. Se la più grande forza del capitalismo è la sua
capacità adattiva, la sua più grande debolezza sta nella necessità di avere un mercato per poter proseguire la sua corsa. Se non c’è il mercato, il sistema si contorce su sé stesso ed implode. È questo quello che è accaduto con la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, da cui è derivato il collasso finanziario del 2008: le disuguaglianze avevano portato il costo delle case ad un livello tale per cui una grande fascia di popolazione di reddito medio-basso non poteva più acquistarle, nemmeno con un indebitamento sostenibile. E allora furono aperte linee di credito anche a chi non avrebbe potuto farvi fronte, pur di sostenere il mercato, con le conseguenze che sono note.
Inoltre, ci è ormai chiaro che siamo usciti da un lungo periodo di relativa stabilità dei processi economici e sociali, e di gestione dell’ordine internazionale e, dunque, dalla possibilità programmatoria dentro un contesto sufficientemente prevedibile.
Siamo in una fase dove le crisi, di diversa origine, non sono più eventi eccezionali, ma si susseguono quasi una dopo l’altra e ci sono ragionevoli certezze per prevedere che questa sia una condizione ormai strutturale. Questo impatta su diverse dimensioni, a partire dai modelli di gestione del rischio delle attività di programmazione, che appaiono, così come li conosciamo, obsoleti dato l’alto livello di imprevedibilità degli eventi futuri.
A che cosa ci porta questo lungo discorso? Al fatto che per affrontare adeguatamente le grandi sfide di domani, che sono in grande parte sociali, le azioni non possono rimanere confinate nel perimetro del welfare ma è necessario agire per orientare la direzione dello sviluppo economico.
Il cambiamento dunque è considerevole, ma fortunatamente siamo, come territori, meno soli di quanto pensiamo. È proprio dall’Europa, alla quale siamo fortemente connessi, che proviene lo stimolo al cambiamento di passo.
Alla luce delle grandi crisi sopra richiamate, l’Unione Europea ha infatti messo per la prima volta in discussione, dopo decenni, la capacità del mercato di risolvere tutti i problemi, riconoscendo che a questo è stato lasciato uno spazio di autonomia tale da far perdere di vista gli obiettivi stessi dello sviluppo economico. Se questi rimangono legati alla crescita fine a se stessa, producono fratture profonde nel corpo sociale, che si riverberano nella crescita delle disuguaglianze e delle marginalità sociali.
L’Unione Europa ha così rivisto, subito dopo la pandemia, l’impianto ideologico delle sue politiche e ha aperto ad un diverso approccio all’economia, riconoscendo che essa è fatta anche da organizzazioni per cui gli obiettivi economici e sociali non solo vanno di pari passo, ma dove sono i secondi ad indirizzare i primi, attivando così, attraverso il Piano d’azione per l’Economia Sociale, politiche ad hoc per sostenerne l’espansione. Si tratta di un processo di trasformazione appena iniziato, che deve essere sostenuto nel tempo, e l’esito delle imminenti elezioni europee sarà determinante per stabilire se si potrà proseguire nella direzione tracciata.
Veniamo, alla luce di ciò, alla “nostra” Fabbrica del programma. È con questo orizzonte che abbiamo necessità di impostarla e viverla: con l’apertura ad una revisione delle politiche di sviluppo degli ultimi venti anni, in considerazione del nuovo contesto. Si renderà dunque necessario sperimentare fuori dalla zona di comfort ed introdurre importanti elementi di discontinuità.
Occorrerà in particolare, molto più che in passato, uscire dai perimetri circoscritti – politiche per la crescita da una parte, quelle di welfare dall’altro – alla ricerca di nuove alleanze e sinergie. Non abbiamo solo bisogno di nuove politiche ma anche di un diverso modo di fare le politiche. Nuovamente, non ci muoviamo “al buio”: l’elaborazione di azioni integrate che partano da una o più sfide identificate per il territorio, il cosiddetto “modello a missioni” proposto da Mariana Mazzucato, è già diventata pratica diffusa a livello europeo.
Prendendo spunto dalla missione individuata nel 1962 dal Presidente degli Stati Uniti J.F. Kennedy di “far sbarcare un uomo sulla Luna e riportarlo sano e salvo sulla Terra”, l’economista illustra come sia possibile, a fronte di un grande e persino impensabile intento, muovere risorse materiali e immateriali, energie da soggetti anche molto diversi tra loro.
Quando ci si trova davanti a passaggi di tale complessità, è più che naturale esserne spaventati a tal punto da prediligere lo status quo. Anche in questo caso possiamo trovare punti di appoggio, in particolare rispetto a due elementi strategici: la relazione tra la visione alta e la sua messa a terra e quella tra lo spazio e il tempo per il suo pieno compimento.
Per quanto riguarda il primo elemento, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) da tempo applica la strategia del “pensare in grande, costruire in piccolo”, per affrontare le gravi piaghe dello sviluppo umano. L’attuale piano strategico 2022-2025 è costruito attorno a questo approccio, che propone di conservare il portato di trasformazione sistemica offerto dalla visione, senza piegarla ai limiti del contingente, e al contempo costruire focalizzando su azioni mirate, coerenti con la visione stessa. Secondo l’ultimo Rapporto sullo stato dello Sviluppo umano – Human Development Report – nove Paesi su dieci stanno retrocedendo rispetto ai progressi fatti negli ultimi venti anni e i decisori politici a tutti i livelli affermano di sentirsi completamente bloccati, “stuck”. Da qui la proposta operativa, già praticata, di focalizzare le politiche sui sistemi e i loro cambiamento per uscire dal pantano, e non più su singoli progetti.
Sul secondo aspetto, troviamo invece un riferimento esplicito nell’enciclica Evangelii Gaudium, quando si esprime sul come costruire qualcosa di davvero complesso, ovvero “un popolo di pace”.
Il tempo, leggiamo, deve essere superiore allo spazio: “dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli.
Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.”
Che cosa significa dare più importanza al tempo che allo spazio e soprattutto come lo si può fare? Impone di programmare con lungimiranza, ovvero mettere il futuro dentro le politiche di oggi, senza farsi (del tutto) ingabbiare dalle contingenze. Anche in questo caso, la messa in opera di questa postura è già attualità, ad esempio, attraverso le pratiche che trasferiscono potere decisionale alle giovani generazioni su determinate politiche.
Laddove questo avviene, come ad esempio in Giappone attraverso il sistema di ombudsman, afflitto come l’Italia dal gravissimo problema di invecchiamento della popolazione, non si applicano procedure di mera consultazione ma di vera e propria redistribuzione di potere a favore dei più giovani, che attraverso strutture di rappresentanza possono modificare le normative poste al vaglio. Così accade anche all’interno delle organizzazioni che adottano il “reverse mentoring”, una pratica che interpreta l’apprendimento tra personale senior e junior come un processo biunivoco, favorendo una nuova cultura organizzativa e capacità di esplorare soluzioni innovative.
La cassetta degli attrezzi, in sostanza, si sta sempre più arricchendo di possibili strumenti, allontanando il dilemma del “come si fa?”. Piuttosto, quello su cui forse occorre porre veramente l’attenzione, dall’Europa all’Emilia Romagna, sono proprio, come ci sollecita l’Enciclica, la capacità di portare avanti “convinzioni chiare e tenaci.”
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