Laura Pennacchi, Gennaio 2024, Pubblicato su “Indiscipline”.
È difficile dissentire dall’allarmata valutazione di Ambrogio Santambrogio secondo cui “questi anni di neoliberismo hanno visto un offuscamento della funzione sociale delle nostre discipline”, quasi scomparse dal dibattito pubblico. Ed è altrettanto difficile contestare la sua convinzione che oggi, “in preda ad un disorientamento collettivo senza precedenti”, è giunto il tempo di riproporsi la questione del ruolo dell’intellettuale e di mettere al servizio della collettività un “sapere critico” rinnovato. Su analoghe basi Mirella Giannini auspica che venga colmata “l’assenza dalla scena pubblica di quella valutazione critica degli effetti negativi sulla società” indotti dalle nuove tecnologie e dalle trasformazioni del lavoro in passato prerogativa degli scienziati sociali e che, in particolare i sociologi, tornino a “sollevare pubblicamente questioni in grado di sfidare poteri ortodossi e logiche dogmatiche”.
Per procedere lungo la strada auspicata bisogna, a mio parere, fare quello che finora non si è fatto, cioè prendere il toro per le corna e il toro si chiama “neoliberismo”, il quale non è affatto morto – come pensa Santambrogio – e ha, anzi, mostrato una notevole capacità di rigenerarsi mediante l’ibridazione con varie forme di populismo e di sovranismo nazionalistico, continuando a far aleggiare su di noi la sua mortal coil (spira mortale), secondo la definizione di Colin Crouch (che già nel 2011 aveva parlato della strange non-death del neoliberismo). Si vedrà allora che le “promesse del patto sociale novecentesco tra capitalismo industriale e lo Stato del welfare” non sono state affatto “disattese” – come sostiene Giannini – e sono state, anzi, realizzate, con tutti i loro limiti, in termini così vasti, da scatenare la reazione regressiva (verso la deregolamentazione, la svalutazione del lavoro, la privatizzazione, l’iperfinanziarizzazione) del neoliberismo, il quale si è configurato come una vera e propria opera di “restaurazione” capitalistica intenzionalmente e politicamente perseguita.
Ancor di più si vedrà come sia necessario, per tentare di uscire dal disorientamento in atto, risalire ai suoi fondamenti concettuali. Certo, colpisce profondamente riandare con la memoria, dal deserto odierno, alla ricchezza di contributi, di riflessioni, di dibattiti degli anni sessanta e settanta del Novecento: per stare solo alle riviste italiane si passava da “Quaderni rossi” a “Classe operaia”, “Contropiano”, “Primo maggio”, “Quaderni Piacentini”, “Inchiesta”, “Politica ed Economia”, “Democrazia e Diritto”, eccetera. Ma il rarefarsi della riflessione, l’inaridimento del pensiero, il proliferare nelle scienze sociali, specie in sociologia, di analisi empiriche minute con forti pretese calcolistiche ma debole prospettiva e interpretazione teorica, lamentati giustamente da Santambrogio, si debbono all’imperialismo con cui la disciplina economica ha imposto le proprie idee (scarse, per quanto potenti) e le proprie metodologie (mostruosamente complesse: matematica ed econometria) a tutte le altre discipline. A sua volta la disciplina economica è riuscita ad imporre la propria supremazia sposando come un dogma il neoliberismo, mediante il quale ha portato alle estreme conseguenze le implicazioni implicite nella svolta epistemologica dall’”economia classica” all’”economia neoclassica” compiuta a cavallo tra Ottocento e Novecento, in un clima intellettuale crescentemente positivista e neo-positivista e nell’ininterrotto tentativo di trasformarsi da “scienza sociale” in “scienza della natura”, con forme sempre più estese di matematizzazione su basi concettuali forzatamente sempre più esigue (per liberarsi della complessità, ma anche della ricchezza, della realtà “sociale” mimando la struttura concettuale astrattamente convenzionale di una “scienza della natura”).
La svolta si è consumata attorno alla duplice ipostatizzazione della configurazione mezzi-fini, assunta come nucleo universale dell’azione razionale, e dell’agente economico come individuo autointeressato, massimizzante, perfettamente razionale, una ipostatizzazione che concentra tutta l’attenzione sui mezzi – in particolare sulla loro massimizzazione – considerando i fini come dati. La razionalità dell’individuo autointeressato (manifestata dalla configurazione mezzi-fini) si esercita solo nella ricerca della coerenza dei mezzi rispetto ai fini: vengono estromessi dal campo del razionalmente intelligibile ed indagabile significati, simboli, valori, fini. La descrizione degli “interessi” compiuta da Pareto 1916 (“spinte ad operare” al fine dell’appropriazione dei “beni materiali utili o anche solo gradevoli”, mezzi con cui raggiungere “il conseguimento di qualche bene personale” con modalità “logiche”) contrappone l’agire economico alle altre forme di azione umana, prime fra tutte la politica e il dialogo intorno ai valori.
La sistemazione epistemologica della dottrina marginalista è preliminarmente passata attraverso una definizione del termine “economico” mediante la quale è stata realizzata l’ambizione di non discriminare tra tipi di condotta umana, ma di circoscrivere uno specifico aspetto della condotta umana stessa, l’”economico” per l’appunto, riconoscibile da una compresenza di “molteplicità di scopi”, “limitatezza di mezzi”, “possibilità di usi alternativi” (Robbins 1935), il cui verificarsi simultaneo conferisce all’agire umano la forma della scelta in condizioni di scarsità. A fronte di scopi dati e di mezzi scarsi, la razionalità del comportamento si estrinseca soltanto nella sua “coerenza”, vale a dire nella adeguatezza della scelta dei mezzi rispetto ai fini, e a sua volta la coerenza viene ridotta a “efficienza” (che per l’appunto consiste nella selezione dei migliori tra mezzi dati in relazione a fini dati). Ma poiché la scarsità di mezzi per conseguire dati scopi è una condizione quasi onnipresente della condotta umana, l’”economia di scambio” e la “condotta dell’uomo isolato” obbediscono a un criterio esplicativo analogo, la ricostruzione delle leggi della scelta in condizioni di scarsità. Sulla scia di Weber, il quale per “agire economico” intende “un esercizio pacifico di potere di disposizione che sia orientato economicamente in modo primario” e con “agire economico razionale” denota “un esercizio di tal genere che sia orientato economicamente in modo razionale rispetto allo scopo” (Weber 1922), Robbins (1935) individua l’”unità dell’oggetto dell’economia “nelle forme che la condotta umana assume per disporre di mezzi che sono scarsi”, configurando ab ovo l’economia come scienza della scarsità. Queste forme per adattarsi alla scarsità non sono limitate né storicamente né spazialmente: “si riferiscono all’uomo come tale, primitivo o evoluto che sia”. Di qui sia l’angustia sia l’universalità dell’agente economico, homo oeconomicus per l’appunto. Così, attraverso la doppia identificazione ricordata – razionalità normale uguale razionalità soggettiva, azione economica uguale azione razionale – un paradigma più complessivo di razionalità utilitaristica e strumentale è stato applicato all’agire umano nella sua generalità, al di là cioè dell’ambito economico e dell’epoca specifica – quella moderna – per la quale era stato originariamente ideato.
Ne discende una netta separazione di economia ed etica e tale separazione fa tutt’uno con la decretata impossibilità di sottomettere i fini e i valori a tematizzazione razionale. Dice Robbins (1935): “L’economia ha a che fare con fatti accertabili; l’etica con valutazioni e obbligazioni. I due campi di ricerca non sono sullo stesso piano di discorso”. Il terreno è spianato anche per una naturalizzazione dei processi economici che, facendosi natura, vogliono imporsi in modo irrefutabile: conta ciò che costa di meno e asseconda l’andamento delle cose nel modo più naturale, la naturalità dei percorsi si struttura sulla base del venir meno degli antichi vincoli e divieti della tradizione, la razionalità del comportamento in condizioni di scarsità funzionerà anche come naturalizzatore delle soluzioni, fino al punto da rendere onnipervasivo il motto TINA (there is no alternative). Le leggi economiche possono essere così legittimate anche allo scopo di definire i principi di realtà e di verità, aprioristicamente immunizzati da dubbi, interrogativi, incertezze.
Le caratteristiche che hanno connotato “l’economia neoclassica” fin dall’inizio sono state estremizzate dal neoliberismo e portate a conseguenze limite così sintetizzabili: la configurazione mezzi-fini come nucleo universale dell’azione razionale, la concentrazione dell’attenzione sulla massimizzazione dei mezzi e l’espulsione dei fini e dei valori dall’ambito del razionalmente indagabile e tematizzabile, la visualizzazione dell’agente economico come individuo autointeressato, massimizzante, perfettamente razionale, il predominio della razionalità strumentale, la scissione tra etica ed economia. Nel neoliberismo vi è una stretta connessione tra tutte queste caratteristiche, in particolare tra la mitizzazione dell’autoregolazione dei mercati e l’enfatizzazione dell’homo oeconomicus e dell’individualismo autointeressato e acquisitivo. In esso i mercati sono supposti intrinsecamente stabili, perché strumentalmente, quindi perfettamente, razionali, con deviazioni solo temporanee, e gli agenti economici agiscono come omogenei Robinson Crusoe, ignari tanto della profonda instabilità, quanto della larga eterogeneità e della estesa interazione tra attori proprie del mondo economico reale. Certezza e conoscenza illimitata, atomismo, accidentalità (non strutturalità) della crisi, armonia nella distribuzione del prodotto sociale, costituiscono la visione ipostatizzata delle presunte condizioni in cui tale agente si muoverebbe.
C’è un problema di irresponsabilità anche etica che nasce dalla pre-analytic belief in simili assunzioni così controverse dal punto di vista epistemologico. L’individuo esiste prima e a prescindere dalla collettività e dalle istituzioni che ne mediano, nelle società moderne, le relazioni con il collettivo sociale. L’individuo detiene in modo naturalistico diritti – in primo luogo un diritto di libertà individuale – determinati dalla propria individuale sovranità su se stesso, quindi dotati di una antecedenza logica e di una superiorità morale su qualunque aspetto della relazione con la collettività. L’individuo dispone di un titolo “naturale” che determina ciò che è “suo” e ciò che è “degli altri”. Dunque, i “diritti di proprietà” sono modellati sul diritto di libertà individuale e non richiedono nessun’altra giustificazione. In quanto tali sono sottoposti solo alla sovranità dell’individuo su se stesso e questo vale per il diritto ad esercitare liberamente i propri individuali sforzi ed abilità, il diritto a disporre a proprio piacimento di ciò che si è acquisito, la libera possibilità di cooperare con gli altri individui, scelta (o respinta) in modo indipendente, senza dover sottostare ad alcun vincolo associativo proprio della convivenza civile.
La libertà individuale nasce prima, senza e perfino contro la società, la collettività, lo Stato: ogni individuo è un atomo isolato, il quale ha il diritto di tenersi ciò che guadagna legittimamente e di consumare ciò che desidera, attenendosi solo alle sue preferenze. Gli interventi della collettività ammissibili sono solo quelli necessari per difendere i diritti negativi e soprattutto i “diritti di proprietà”; essi non possono essere volti a garantire diritti positivi e tanto meno diritti sociali o a contrastare la povertà e le disuguaglianze, effetti non intenzionali dell’agire di mercato di cui nessuno può essere considerato responsabile. Gli individui sono strettamente autointeressati, volti solo al perseguimento egoistico dei propri interessi, i quali veicolano preferenze. Come i gusti, anche gli interessi hanno contenuto opaco e contano indipendentemente dalle loro specificazioni qualitativo-sostanziali, come fatto idiosincratico su cui non può prodursi né argomentazione, né dialogo, né discussione.
L’assolutizzazione etica del mercato provoca un’estensione del principio del mercato – per cui Becker è divenuto celebre – a tutti gli aspetti della vita umana (dalla politica al matrimonio, alla procreazione, all’educazione dei figli) e, allo stesso tempo, una naturalizzazione dell’economia, come attività umana e come disciplina analitica che non a caso si atteggia sempre più a “scienza della natura” invece che a “scienza morale e sociale”. Una stringente operazione riduzionista, in effetti, viene compiuta anche sul piano valoriale, un riduzionismo che tende a restringere e a confinare la pluralità e la ricchezza dei valori alla base delle norme che strutturano la vita moderna. L’assunzione dello scambio come etica in se stessa fa sì che lo standard morale sia dato dalla fede nella proprietà privata e nella concorrenza di mercato, dispositivi individualizzati attraverso i quali è possibile utilizzare positivamente anche i più bassi istinti umani, come l’avidità, l’ingordigia, il desiderio di ricchezza e di potere a danno degli altri. Le soggettività si ritrovano a contemplare la loro scissione dal mondo e dagli altri soggetti, la spogliazione delle passioni tranne quella acquisitiva, l’indifferenza ai fini e ai valori, la sensibilità alla seduzione dello scambio generalizzato, il silenzio di fronte alla vita e alla ricchezza dell’interazione umana.
Qui, in questo riduzionismo anche etico, emerge il secondo aspetto cruciale alla base, secondo me, del disorientamento odierno e della perdita di senso del proprio ruolo da parte delle scienze sociali, in questo caso da parte soprattutto della filosofia. Si tratta di qualcosa in cui il neoliberismo gioca una funzione intensificatrice ma che va al di là del neoliberismo stesso e cioè il “pluralismo dei valori”, conquista irrinunciabile della modernità – in quanto opponentesi al dominio della tradizione e di tutti i vincoli naturalistici: la famiglia, il clan, la razza, la nazione – ma che nella versione del “secolarismo liberale” ha finito con l’identificarsi con una sorta di ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica, il quale, a sua volta, è in non piccola misura causa dei processi di “depoliticizzazione” e “dedemocratizzazione” in atto. In effetti, il secolarismo liberale – che, con la speranza di neutralizzare le pulsioni distruttive delle guerre di religione, ha confinato le credenze metafisiche e le convinzioni assolute, dunque anche quelle valoriali, in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata, operandone una sorta di privatizzazione che lega la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico – coincide con un “deflazionismo filosofico”. Il secolarismo, cioè, ritenendo che le questioni poste a decisione pubblica vadano formulate solo in termini che non richiedano di fare appello agli impegni morali individuali (ritenuti per definizione inconciliabili, incomparabili, non negoziabili), induce a calare un velo di trascuratezza e di sottovalutazione su dissensi pregni di credenze significative su cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è moralmente apprezzabile e cosa no. L’esito di questa sottrazione al discorso pubblico delle questioni valoriali si risolve in una difficoltà di loro sottoposizione all’argomentazione, all’esame critico, alla verifica razionale, al dibattito collettivo, al dialogo intercomunicativo, e il “pluralismo dei valori” si tramuta in un costante e irrisolvibile “conflitto di valori”.
Non possiamo sottovalutare la mannaia che lo scetticismo contemporaneo e l’interdetto weberiano fatto/valore hanno calato sui valori, negando che essi possano essere veri o falsi e pertanto collocandoli in un limbo a metà tra l’arbitrarietà e la fatticità. Così viene resa assoluta la mancanza di chiarezza che da tutta la modernità si associa alla nozione di valore, non chiarita dal pensiero filosofico ma nemmeno dalle ideologie che hanno, anzi, contribuito vieppiù ad oscurarla (poiché le ideologie, specie quelle totalitarie, non hanno bisogno di valori e di idealità, ne sono anzi la sostituzione e la degenerazione in chiave assolutistica). Qui oggi c’è una latitanza, e pertanto una responsabilità, in primo luogo della filosofia, specie di quella di matrice illuministica ed umanistica che fu, invece, alla base delle battaglie di libertà e di giustizia del mondo moderno, a partire dalle grandi Rivoluzioni americana e francese, le cui categorie chiave – libertà, eguaglianza, fraternità – sono profondamente morali, per arrivare al rinnovamento costituzionale degli Stati nel Novecento, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali. Confondendo la linfa antidogmatica, antifondamentalista, liberatrice della modernità con l’accettazione del relativismo ed escludendo i valori dall’ambito del razionalmente tematizzabile e indagabile e separandoli dalla conoscenza e dalla ricerca, la filosofia contemporanea, con l’eccezione della “scuola di Francoforte”, compie una grave “colpa di omissione”, lasciando oscurata tutta la nostra esperienza quotidiana dei beni e dei mali, compresi quelli che concernono la nostra vita associata. Per non dire delle responsabilità del filone postmoderno e del decostruzionismo che arrivano a condannare ogni tentativo critico che cerchi di universalizzare la condizione umana ricorrendo a valori quali la dignità, la giustizia, la verità, la coscienza, giungendo a considerare, con Foucault, l’universale e l’umano fantasie totalizzanti e l’intera riflessione sullo sfruttamento e sull’alienazione un ritorno alle illusioni, dichiarate “regressive”, di Rousseau, Marx, Fromm, Marcuse.
Per ritrovare uno spazio nel dibattito pubblico e esercitare la propria funzione sociale, è con tutto ciò che le scienze sociali debbono misurarsi. Dirò di più: debbono perfino risalire ai loro lontani antecedenti antropologici, che si chiamano Machiavelli e Hobbes. La antropologia “negativa” che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale – alimentante la brama di possedere ricchezze e beni materiali e il desiderio di distinzione per cui gli altri paiono solo come nemici o competitori (brama e desiderio che hanno raggiunto punte parossistiche con la possessività, l’autointeresse, l’acquisitività dell’homo oeconomicus figlie del neoliberismo) – si è consolidata con Machiavelli e Hobbes ed è arrivata fino a Mandeville e a Smith e poi a tutto l’Ottocento e il Novecento. La machiavelliana “verità effettuale delle cose” induce a vedere negli uomini solo ingratitudine, volubilità, attitudini simulatrici, vigliaccheria, cupidigia, il che dovrebbe suggerire al Principe e al politico di operare presupponendo “tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro”. In Hobbes la costrizione a conquistare sempre maggiore potere si radica nella carenza, nell’insicurezza, nella paura e nell’impulso alla autoconservazione che caratterizzano un individuo essenzialmente utilitarista. L’antropologia dell’uomo come essere “desiderante” è riassunta da Hobbes come repulsa degli “amici” e ricerca delle “persone da cui ci vengano onore e vantaggi”. L’essere umano è mosso soltanto da spinte alla competizione, alla diffidenza e alla gloria, spinte che lo portano a prevenire gli altri aggredendoli e così conducendo, come homo homini lupus, una “vita solitaria, misera, sgradevole”, da cui si fuoriesce esclusivamente con la neutralizzazione, compiuta dal Leviatano, della paura e del disordine tipici dello “stato di natura”. Da qui nasce e si sviluppa quello che Tommaso Greco definisce il “paradigma sfiduciario” alla base del pensiero giuridico-politico moderno – soprattutto del filone “realista” in cui spicca il Carl Schmitt dell’apologia amico/nemico – il quale, presupponendo una natura umana “cattiva”, dedita alla sopraffazione, fa ricorso solo alle componenti della forza, della minaccia della sanzione, delle misure coattive, ignorando le risorse della “fiducia”, della relazionarietà, della propensione a cooperare, della solidarietà, in verità normativamente attive anche nel diritto e nella strutturazione della legge, il che, se adeguatamente valutato e “non rimosso”, toglie validità alla pretesa conclamata separazione tra morale e diritto, tra etica e politica.
Come non vedere quanto l’antropologia “negativa” e il paradigma “sfiduciario” sono in relazione con l’ostracismo dato ai valori nella sfera pubblica e quanto insieme influenzano l’attuale inaridimento della riflessione collettiva, l’indebolimento della politica, l’evoluzione democratica moderna e contemporanea? In particolare in Italia, il paese di Machiavelli, dove la sua eredità è stata spesso usata come un comodo alibi per giustificare inquietanti miscele di cinismo e di trasformismo e dove anche la sinistra è rimasta invischiata in una tradizione storicista e materialista che non di rado ha portato a snobbare come “filistee” o come “moralistiche” le istanze etiche e valoriali in politica. Ecco, le scienze sociali hanno grandi compiti rispetto a tutto ciò. Non si tratta di aderire ingenuamente e fideisticamente a una visione “angelicata” dell’essere umano. Si tratta di ben altro: di uno scavo nella profondità e nella complessità delle pulsioni e delle motivazioni umane, senza “rimuoverne” alcuna, per superare una concezione elementare e famelica dell’esistenza che ricorre alla paura come unica risorsa strategica e riscoprire la carica antropologicamente strutturante dell’immaginazione, del desiderio, dei sentimenti, della relazionarietà, del “principio speranza”.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Pareto, V. 1916, Trattato di sociologia generale, ristampato da Comunità, Milano 1964
Robbins, L. 1835, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, MacMillan, London (tr. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, UTET, Torino 1947), pp 22 e seg. P. 33
Weber, M. 1922, Economia e società, Comunità, Milano, 1961, p. 101.,
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