RIPRENDIAMO IL LAVORO – Razionalizzare i contratti, ripristinare tutele e sicurezza

da | Mag 3, 2024 | Articoli | 0 commenti

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maggio 2024

1.Il contesto

Il mercato del lavoro in Italia negli ultimi decenni ha subìto un aumento significativo della precarietà e delle disuguaglianze, nonché un indebolimento dei sindacati e del potere contrattuale dei lavoratori. A partire dagli anni ’90, l’Italia ha sperimentato un processo di destrutturazione del mondo del lavoro, simile a quello di altri paesi europei. Abbiamo avuto la diffusione di nuove forme di contratti di lavoro atipici, che hanno lo scopo di adattare i rapporti professionali alle nuove esigenze di organizzazione del lavoro. Questi contratti atipici, come i contratti a termine o il lavoro intermittente, hanno contribuito all’aumento della precarietà nel mercato del lavoro italiano. La precarietà a sua volta ha un impatto significativo sul livello medio dei salari, non solo per i lavoratori con contratti precari, ma anche per quelli con contratti stabili. La presenza di alternative a basso costo, infatti, esercita una pressione al ribasso sul livello generale dei salari. Inoltre, la precarizzazione del mercato del lavoro ha contribuito all’indebolimento dei sindacati, che hanno visto diminuire il loro potere politico e la loro capacità di rappresentare e tutelare i lavoratori. L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è stato accentuato dalla diminuzione del ruolo del livello nazionale come regolatore dei rapporti di lavoro. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito a una maggiore enfasi sulla negoziazione individuale a livello di settore o addirittura a livello aziendale, riducendo così il potere contrattuale dei lavoratori che per sua natura è direttamente proporzionale al numero di lavoratori coperti. Tutto ciò ha portato a un contesto in cui i lavoratori si trovano in una situazione di maggiore vulnerabilità e incertezza riguardo alla continuità della loro relazione lavorativa e alla loro indipendenza economica. L’insicurezza sul futuro professionale e sociale, insieme a salari insufficienti e discriminanti, sono caratteristiche comuni del lavoro in Italia. Questo porta a un senso di precarietà, insoddisfazione e stress da parte dei lavoratori, che a sua volta si riverbera sull’intero sistema paese attraverso principalmente tre canali.
Primo, tassi di emigrazione crescenti – soprattutto di giovani e di quelli più qualificati – verso paesi dove i cittadini trovano maggiore gratificazione per il loro lavoro, in termini salariali come di welfare aziendale, di ascensione di carriera e di qualità dell’impiego in generale: questo processo, che va avanti da alcuni decenni, depaupera progressivamente l’Italia delle sue energie potenzialmente migliori, peraltro dopo che ingenti risorse pubbliche erano state giustamente impegnate per la loro istruzione; con il risultato di porre una pesante ipoteca sulle possibilità di sviluppo del nostro paese, in termini economici, sociali, culturali e demografici.
Secondo, il declino demografico dell’Italia, sia per l’emigrazione dei giovani (appunto), sia perché la precarietà e i bassi salari rendono più difficile la scelta di fare figli, per coloro che restano: anche in prospettiva, quindi, specie in assenza di politiche migratorie razionali e inclusive, l’ipoteca tende a farsi sempre più pesante, a mano a mano che l’età media dei cittadini va spostandosi verso l’alto. Terzo, un sistema di precarietà e bassi salari fornisce al sistema produttivo gli incentivi sbagliati: agevola le imprese labour intensive a bassa produttività, scoraggiando gli investimenti nell’innovazione che invece porterebbero all’aumento della produttività e consentirebbero quindi di pagare salari più alti; (anche) per questo motivo la produttività italiana si sta allontanando da quella degli altri paesi avanzati, mentre le imprese tendono a specializzarsi in settori a basso valore aggiunto che oltretutto, proprio come in un circolo vizioso, tendono a favorire ancora di più l’espulsione di lavoratori qualificati (di cui non hanno bisogno) e fanno maggiore resistenza a quegli interventi, come il salario minimo o un welfare universalistico, che servono a invertire questa tendenza. 8 9 Il Partito Democratico deve essere la forza che più di tutte riconosce questi problemi, se ne fa carico e propone con forza e con competenza soluzioni volte a invertire la rotta. Un modello di lavoro più sostenibile ed egalitario è giusto, in sé, ed è nella natura costitutiva di una grande forza politica che nasce, e deve essere radicata, innanzitutto nel mondo del lavoro. Ma è anche, crediamo, uno dei punti fondanti attraverso cui una forza come il Partito Democratico può parlare oggi a tutto il Paese, a partire dalle imprese più produttive e innovative, nella misura in cui propone, proprio attraverso la dignità e la valorizzazione del lavoro, una strada per uscire dal declino economico (e ripetiamo: anche sociale, culturale e demografico). È la via per rendere l’Italia un paese più giusto e, a un tempo, più moderno e avanzato.

2. Le nostre proposte: salario minimo, legge sulla rappresentanza e partecipazione dei lavoratori, per attuare la Costituzione
Alla luce del quadro che abbiamo delineato, dove non a caso l’Italia figura tra i paesi fanalini di coda nell’Unione Europea per parametri di qualità del lavoro, si potrebbe pensare che il mercato del lavoro italiano abbia bisogno di chissà quali rivoluzionarie o futuristiche riforme . In realtà esiste già da tempo un documento che pone dei pilastri fondamentali da mettere in pratica, i quali se effettivamente attuati porterebbero notevoli miglioramenti nella qualità del lavoro e anche nella sua produttività. Si tratta della Costituzione della nostra Repubblica, entrata in vigore nel 1948, che però dopo tre quarti di secolo continua a non trovare attuazione proprio per quel che riguarda diversi princìpi cardine del mercato del lavoro. Di seguito analizziamo alcuni aspetti fondamentali dei rapporti economici e sociali della nostra Costituzione, fornendo proposte che il Partito Democratico dovrebbe porre come prioritarie nella propria iniziativa politica.

Articolo 36: salario minimo
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” Dopo anni di relazione complicata con il mondo del lavoro, il Partito Democratico s’è desto in un nuovo corso grazie al salario minimo. Sul tema sta portando avanti una delle più efficaci battaglie di opposizione al governo, riuscendo a coinvolgere le altre forze di centro-sinistra e le parti sociali. In Italia, negli ultimi decenni, il numero di lavoratori esposti al rischio di povertà è notevolmente aumentato. Dai dati ministeriali sul lavoro povero, un lavoratore su quattro ha una retribuzione relativamente povera (cioè inferiore al 60% del salario mediano). Il dato è peggiore per i lavoratori part-time e atipici, così come per i giovani e le donne. Dopo la pandemia del Covid e l’inflazione dovuta all’invasione russa dell’Ucraina, le difficoltà per i lavoratori sono ulteriormente aumentate: cassa integrazione, cambi occupazionali, salari reali in deterioramento. In particolare, la perdita di potere d’acquisto in Italia è più netta che in altri Paesi: alla fine del 2022, i salari reali italiani erano calati del 7,5% rispetto al 2019, contro una media Ocse del 2,2%. Tra le cause di queste differenze ci sono l’assenza di un salario minimo legale e una contrattazione malata, in quanto falsata dall’azione dei sindacati gialli. È diventato infatti sempre più comune il fenomeno dei “contratti pirata”, cioè contratti collettivi siglati da associazioni sindacali non rappresentative, che mettono pressione al ribasso sui salari e ne impediscono una sana crescita. Proprio per questo il PD propone un modello di salario minimo che non vada a danneggiare la contrattazione collettiva sana: un sistema che impone per ogni settore il minimo salariale individuato dai sindacati più rappresentativi, ma che in ogni caso non può essere inferiore ai 9 euro all’ora. In questo modo si valorizza la vera contrattazione e si garantisce in ogni caso un minimo dignitoso. Dopo una raccolta di oltre 300mila firme, nell’estate 2023, il governo ha ignorato la petizione sul salario minimo. Per questo il PD ha presentato in occasione di questo 1° maggio una legge di iniziativa popolare che è importante sostenere. In particolare, la battaglia per un salario minimo deve restare un faro anche comunicativo: all’interno di un mondo articolato e complesso come quello del lavoro, molti dettagli e proposte – anche potenzialmente di grande impatto, come alcune di quelle articolate nei prossimi paragrafi – rischiano di avere un aspetto tecnico e spesso inaccessibile ai non addetti ai lavori. Il salario minimo (da legare sempre alla valorizzazione della contrattazione collettiva) è invece una proposta intuitiva, facilmente comprensibile e condivisibile. Tre elementi comunicativi che devono caratterizzare la vicinanza del PD al mondo del lavoro.

Articolo 39: legge sulla rappresentanza
“I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.” Uno degli elementi cardine della proposta del salario minimo è l’estensione a tutti i lavoratori di ciascun settore del trattamento economico dei contratti siglati dalle associazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative in quel settore. Questo approccio assesta certamente un colpo alla proliferazione dei contratti “pirata” (cioè sottoscritti da sindacati non rappresentativi, spesso veri e propri sindacati gialli o di comodo), i quali sono più che raddoppiati negli ultimi dieci anni, portando il totale dei contratti depositati al CNEL da 551 nel 2012 a 1053 nel 2022. A questo proposito, non possiamo pensare che la sola approvazione del salario minimo sarebbe risolutiva. I contratti collettivi disciplinano molti aspetti del rapporto di lavoro: ferie, congedi, scatti di carriera, formazione, sicurezza sul lavoro, etc. L’effetto dumping dei contratti pirata, perciò, non si esaurisce al salario minimo, ma spinge al ribasso molti altri elementi di tutela e qualità del lavoro. L’unica vera soluzione ai contratti pirata è quindi una legge sulla rappresentanza, che vada a normare l’applicazione di contratti realmente rappresentativi in ciascun settore. Così si attuerebbe anche l’articolo 39 della Costituzione, che prevede la stipula di un unico contratto per settore, sottoscritto dai sindacati “in proporzione dei loro iscritti”, che abbia “efficacia obbligatoria” per tutti i lavoratori del settore. Gli aspetti tecnici che stanno dietro a tutto ciò non sono semplici: serve definire una modalità di calcolo degli iscritti ai sindacati, operazione storicamente ostica. Ma non è impossibile, ed è doveroso farsene carico. La campagna sul salario minimo è un primo passo prezioso per ottenere un beneficio concreto a favore dei lavoratori e per sensibilizzare l’opinione pubblica a un tema complesso come la contrattazione collettiva. Ma non basta. Deve essere seguita da un percorso più ambizioso per la definizione di una legge sulla rappresentanza, che dia pieno valore alla contrattazione collettiva sana e quindi attuazione al precetto costituzionale.

Articolo 46: partecipazione dei lavoratori
“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.” Anche sul fronte della partecipazione, a più di 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, in Italia non esiste una legge che garantisca ai lavoratori il diritto – si badi bene, non una semplice possibilità, un diritto – a essere partecipi delle decisioni d’impresa. Non si tratterebbe neanche di un’innovazione radicale nel panorama europeo, lì dove si prevede da decenni, in svariati paesi, la partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali. Si pensi al modello di co-determinazione diffuso in Germania, che fin dagli anni del dopoguerra prevede che nelle imprese più grandi i rappresentanti dei lavoratori occupino la metà dei posti negli organi di amministrazione. Organi decisionali o consultivi dei lavoratori sono presenti anche in Francia, con i “Comité d’entreprise”, in Belgio, con il “Conseil d’entreprise”, in Austria, con i “Betriebsräte”. In Italia, lo scorso anno si è tornato a parlare del tema sulla scia di una proposta di legge di iniziativa popolare portata avanti dalla CISL. Il disegno di legge affida ai contratti nazionali la possibilità di prevedere partecipazione gestionale, economica, organizzativa e consultiva, prevedendo incentivi per le imprese che rendono i lavoratori partecipi alle decisioni e agli utili. Il testo lascia comunque l’attuazione in capo all’impresa e assegna ai rappresentanti dei lavoratori quote minoritarie negli organi aziendali. 14 La proposta di legge ha il merito di compiere un primo passo per dare attuazione non solo all’articolo 46 della Costituzione ma a un vero e proprio pilastro delle relazioni industriali. Noi tuttavia crediamo che il Partito Democratico debba avere l’ambizione di andare oltre questo primo passo, chiedendo maggiore partecipazione per i lavoratori. Un modello più ambizioso di partecipazione è quello del socialismo partecipativo proposto da Thomas Piketty, che ipotizza una partecipazione quantomeno paritaria fra lavoratori e capitale (cioè azionisti).
Nei Paesi dove misure simili sono state attuate in passato, secondo Piketty, questo sistema ha reso i lavoratori parte attiva nella delineazione delle strategie di lungo periodo delle aziende, consentendo loro di vedere il proprio lavoro come più significativo e come un vero e proprio “investimento” nell’azienda. In Italia, personalità come il sociologo Carlo Trigilia, o l’economista Lorenzo Sacconi con il Forum Disuguaglianze Diversità, propongono da anni l’adozione di un modello analogo, adattandolo se necessario alla morfologia industriale del nostro Paese (caratterizzato da industrie di più piccole dimensioni, spesso organizzate nei distretti in cui hanno un ruolo chiave anche le istituzioni locali e altri corpi intermedi), e che secondo gli studi favorirebbe non soltanto la coesione sociale, ma anche l’innovazione e la produttività. Per l’attuazione di un sistema del genere in Italia, tuttavia, è importante fare un monito: non bisogna cadere nell’errore di credere che la partecipazione dei lavoratori possa diventare panacea di tutti i mali, riducendo l’importanza di altri istituti del mercato del lavoro o di altre battaglie. Anche in un sistema di cogestione aziendale, la contrattazione nazionale e le tutele del lavoro dovrebbero avere un ruolo principe.

3. Le nostre proposte: salario minimo, legge sulla rappresentanza e partecipazione dei lavoratori, per attuare la Costituzione

Anche alla luce di un mercato del lavoro particolarmente performante nel post-Covid, in Europa molti paesi stanno varando misure fortemente improntate alla tutela dei lavoratori. La Germania ha notevolmente aumentato la soglia del salario minimo portandolo a 12 euro l’ora (era a 8,5 euro quando fu istituito nel 2015 e secondo gli analisti la sua introduzione ha favorito anche la crescita della produttività); la Spagna ha varato un’ambiziosa “reforma laboral” per tutelare la stabilità e qualità del lavoro; molti paesi come Regno Unito, Belgio e Islanda sperimentano la settimana corta. Anche le direttive approvate o in discussione nelle istituzioni UE in materia di occupazione – dal salario minimo al lavoro tramite piattaforme digitali – si pongono ora come obiettivo il rafforzamento delle tutele per i lavoratori. In questo quadro, l’Italia si muove invece in direzione opposta, smantellando le tutele del Reddito di Cittadinanza, favorendo i contratti a termine e ampliando le possibilità del lavoro occasionale, come previsto dal Decreto legge del 1 maggio 2023. Eppure, un ragionamento sulla qualità contrattuale sarebbe necessario, considerando che l’Italia è uno dei Paesi UE con il più alto tasso di lavoratori a termine e con i salari più stagnanti. Del resto, l’ispirazione alla recente riforma spagnola è stata uno degli argomenti chiave per la vincente campagna di Elly Schlein nelle primarie PD, fondata sull’idea di ridare centralità al contratto a tempo indeterminato come forma standard di impiego. Per portare il modello spagnolo in Italia, servirebbe stringere le causali del tempo determinato invece di espanderle, prevedendo la possibilità di attivare contratti a termine solo in caso di sostituzione di lavoratori e per picchi di produzione occasionali non programmabili – lasciando a una contrattazione collettiva sana, cioè veramente rappresentativa come descritto prima, la possibilità di determinare eventuali ulteriori causali per la temporalità e stagionalità specifiche dei settori.

Non basta tuttavia agire sui contratti a termine, perché il mondo del lavoro è un complesso sistema di vasi comunicanti dove la modifica alla normativa di un determinato contratto genera effetti conseguenti su altre tipologie di contratti. Occorre pertanto un ragionamento complessivo sul panorama lavorativo italiano, che deve tradursi in uno sfoltimento della giungla contrattuale del mondo del lavoro, in modo che il tempo indeterminato sia effettivamente – e non solo su carta – il contratto principe, la “forma comune di rapporto di lavoro” (come sancito peraltro nello stesso Jobs Act). Bisogna quindi, oltre alle causali sul tempo determinato, applicare gli stessi criteri al contratto di somministrazione per evitare che diventi un nuovo veicolo per lavoro precario. Bisogna abrogare il contratto intermittente, i voucher re-introdotti dal governo con la Legge di Bilancio 2023 e la monocommittenza, che di fatto vincola tanti giovani iscritti agli albi professionali (avvocati, architetti, etc.) a un rapporto subordinato inquadrato come finta partita IVA, quindi senza alcuna tutela. E bisogna risolvere il vulnus dei tirocini extracurriculari, in Italia bloccati nel limbo costituzionale tra regioni e governo in quanto tecnicamente formazione professionale, ma nei fatti strumento di facile abuso come lavoro a termine e quasi sempre pagato sotto la soglia di povertà assoluta. Insomma, la direzione da intraprendere è ben diversa da quella dove ci stanno portando le azioni del Governo. Serve un cambio di paradigma sul modo in cui l’Italia approccia il mondo del lavoro, in ottica di equilibrio generale e valorizzando la stabilità complessiva del rapporto di lavoro. Si tratterebbe peraltro di un beneficio per tutto il sistema Paese, come accennato. La continuità occupazionale del tempo indeterminato, infatti, riducendo un eccessivo turnover dei lavoratori finalizzato a mantenere basso il costo del lavoro nel breve periodo, spinge le imprese a valorizzare di più i propri lavoratori, investendo in formazione e professionalità. Nell’attuale fase di bassa produttività, un investimento di questo tipo sarebbe prezioso, avvantaggiando molto anche le stesse imprese nel medio-lungo periodo, sospingendone la competitività a livello globale e apportando quindi benefici, a cascata, a tutto il sistema Paese. 17 In questa stessa ottica, riteniamo condivisibile l’iniziativa referendaria promossa ad aprile dalla Cgil. I quattro quesiti proposti dal principale sindacato del lavoro si prefiggono infatti, singolarmente e nel loro insieme, di restituire tutele e sicurezza ai lavoratori e vanno nella direzione che noi auspichiamo. Il primo quesito chiede di abolire le norme che impediscono, per le aziende con più di 15 dipendenti, il reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo, ripristinando quindi l’articolo 18 dei lavoratori ed eliminando l’aspetto più controverso del Jobs Act. Il secondo quesito si collega al primo, riguarda però le aziende fino a un massimo di 15 dipendenti: si tratta di togliere il tetto massimo all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, così da creare un maggiore deterrente anche per queste imprese (ed evitando l’eccessiva disparità di trattamento fra aziende di diverse dimensioni e che possa quindi essere più conveniente restare piccoli; il nanismo delle imprese è uno dei problemi storici del nostro sistema produttivo). Il terzo quesito chiede di limitare i contratti a temine alle causali previste dai contratti collettivi, in linea con quanto abbiamo evidenziato poco sopra. Il quarto quesito, infine, mira a rendere più sicuri appalti e subappalti, ristabilendo la responsabilità in solido del committente in caso di infortuni o malattie professionali dei lavoratori (cancellata nel 2008): in questo modo, il committente avrà interesse a scegliere in maniera più oculata le aziende appaltatrici e subappaltatrici, con benefici per tutta la catena produttiva (si premiano le aziende più responsabili, innovative e che rispettano la normativa) e per la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Quale futuro per il lavoro? Algoritmi e piattaforme

Molti sono i temi che si potrebbero affrontare per un mercato del lavoro più equo e sostenibile: dalla formazione permanente all’occupazione giovanile, dal gender wage gap che penalizza le donne, al sistema previdenziale che soffre sempre più il rallentamento demografico. Ci saranno occasioni per approfondire molti di questi argomenti, ma ci pare utile come ultima riflessione ampliare lo sguardo alle trasformazioni tecnologiche e digitali che stanno cambiando il mondo del lavoro. In particolare, il Partito Democratico si è fatto promotore presso il Parlamento Europeo di misure per tutelare la dignità dei lavoratori delle piattaforme e degli algoritmi. È di recente approvazione una direttiva sulle piattaforme che sancisce il principio della presunzione di subordinazione: nonostante la flessibilità offerta dai lavori su piattaforma, i lavoratori sono soggetti a un alto grado di controllo da parte dell’algoritmo. Se l’algoritmo decide quando lavorare, quanto lavorare (imponendo penalità per orari sconvenienti o prestazioni rifiutate) e quanto viene percepito, nei fatti il rapporto di lavoro si configura come di tipo subordinato. Spetterà al datore dimostrare eventualmente il contrario. Il PD dovrà essere garante della corretta applicazione di questa normativa da parte del Governo, che già in passato ha operato per snaturare i decreti legislativi di attuazione delle direttive europee. È fondamentale poi che le piattaforme garantiscano la trasparenza dell’algoritmo, fornendo una chiara spiegazione del funzionamento degli algoritmi utilizzati per gestire il lavoro e prendere decisioni che influenzano i lavoratori. Questa trasparenza dovrebbe includere informazioni su come vengono valutati e assegnati i compiti, come vengono determinati i compensi e come vengono gestite le valutazioni delle prestazioni. Anche qui, il PD aveva compiuto importanti passi avanti con l’approvazione durante lo scorso Governo del decreto trasparenza, che poi però è stato significativamente depotenziato dal Governo Meloni. Va sancito poi un tema di titolarità dei dati. I dati generati dai lavoratori durante l’esecuzione dei compiti sulle piattaforme devono essere considerati come di proprietà dei lavoratori stessi. Questi dati possono includere informazioni personali, comportamentali o di performance che possono essere utilizzate dalle piattaforme per migliorare i propri servizi o per scopi commerciali. I lavoratori dovrebbero avere il diritto di accedere ai propri dati, controllarne l’uso e, se del caso, ricevere una compensazione equa per il loro utilizzo. È essenziale inoltre estendere i diritti e le protezioni tradizionalmente garantite ai lavoratori dipendenti anche ai lavoratori delle piattaforme. Questo vuol dire che anche loro devono avere il diritto alla sindacalizzazione, alla negoziazione collettiva, alla protezione dalla discriminazione e al salario minimo garantito, alle prestazioni sociali e ai sistemi di previdenza – tipici dei lavoratori tradizionali. Sviluppare modelli innovativi di assicurazione sociale e previdenza che si adattino alle esigenze dei lavoratori delle piattaforme è fondamentale per garantire la loro sicurezza economica e sociale. Infine, dovrebbe essere nell’interesse delle piattaforme, come di qualsiasi datore di lavoro, investire nella formazione e nello sviluppo professionale dei loro lavoratori, consentendo loro di acquisire competenze aggiuntive e di progredire nelle proprie carriere. Una regolamentazione che sancisca livelli minimi di formazione – inclusa quella alla salute e alla sicurezza sul lavoro – può contribuire a migliorare la mobilità sociale e far sì che i lavoratori possano adattarsi meglio ai cambiamenti settoriali. In sintesi, garantire la dignità dei lavoratori digitali richiede un approccio che consideri sia gli aspetti legali che socio-economici, il che implica una combinazione di regolamentazione, responsabilità aziendale e innovazione nelle politiche pubbliche. Un tema connesso, ma che riguarda ormai la grande maggioranza dei lavoratori (milioni di cittadini), è il diritto alla disconnessione, ovvero la possibilità riconosciuta al lavoratore di non rispondere alle e-mail, alle chiamate o ai messaggi di lavoro durante il suo periodo di riposo, senza che questo possa compromettere la sua situazione lavorativa. A differenza di altri ordinamenti, come quello francese, la legge italiana che regolamenta lo smart working (n. 289 del 2017) non ha riconosciuto la disconnessione come un diritto, ma ne ha rimesso la sua regolamentazione alla negoziazione fra le parti. In questi anni si è compreso come la genericità di tale impostazione abbia reso la disconnessione poco effettiva e scarsamente praticata. Occorre oggi una normativa che riconosca in modo esplicito il diritto (e il dovere, da parte del datore di lavoro) alla disconnessione al di fuori dell’orario di lavoro, che sia di supporto alla negoziazione fra le parti a favore di maggiori diritti.

Conclusioni: quale futuro per l’Italia?

Dagli anni Novanta del Novecento, nel contesto della seconda globalizzazione, le classi dirigenti del nostro Paese hanno pensato che l’economia italiana potesse continuare a prosperare attraverso una competizione di costo, ora non più fondata sulla svalutazione della lira (non più possibile), ma sulla svalutazione del lavoro, attraverso dosi via via maggiori di precarizzazione e flessibilità. Si è trattato di un’illusione, amara e pericolosa, che ha finito per accelerare il cammino del declino del nostro Paese, anche perché con la fine della Guerra fredda ci trovavamo a competere con paesi che avevano comunque un costo del lavoro molto più basso del nostro (enormemente più basso, come nell’enorme Asia emergente; o comunque sensibilmente più basso, come nei paesi ex socialisti dell’Est Europa progressivamente integrati nell’Unione). A questa convinzione non sono state estranee, diciamoci la verità, nemmeno le forze della sinistra riformista, preda anch’esse a quell’epoca (come quasi tutti) della fascinazione neo-liberale. Il Jobs Act (2015) per esempio, come sappiamo, è stato varato all’epoca proprio dal Partito Democratico (guidato all’epoca da Matteo Renzi). Eppure, nonostante una serie di interventi che nell’arco di tre decenni anni hanno reso l’Italia uno dei paesi dell’Unione Europea in cui il lavoro è maggiormente flessibilizzato e precario, e poco pagato, il declino non si è in alcun modo arrestato, anzi è aumentato rispetto alle altre economie avanzate, sia per quel che riguarda il Pil, sia per quanto concerne la produttività. Al netto dell’inflazione, i salari reali in Italia sono addirittura diminuiti (e continuano a diminuire), negli ultimi trent’anni, e a differenza di tutto il resto dell’Unione Europea, pure a fronte di una lieve crescita della produttività. È aumentata la piaga del lavoro povero, sono cresciute le disuguaglianze e, con esse, la disillusione e la rabbia di tanti cittadini, molti dei quali hanno scelto di non andare più a votare o di votare formazioni populiste o della destra estrema. Dopo la parentesi della scorsa legislatura, oggi le destre al governo hanno imboccato di nuovo la via della precarizzazione e svalutazione del lavoro, favorendo in questo modo i ceti e gli assetti più regressivi della nostra società. 21 5 In questo quaderno di lavoro, noi proponiamo invece di cambiare radicalmente strada. Occorre attuare finalmente la nostra Costituzione, dando ai lavoratori dignità, un reddito adeguato a partire dal salario minimo (e non solo), rafforzando la contrattazione dei sindacati realmente rappresentativi e favorendo la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle imprese, come propongono diversi studiosi e forze sociali e come avviene in alcuni dei più avanzati paesi europei. Occorre ridurre in maniera decisa le tipologie dei contratti precari, ad esempio definendo con precisione e con limiti stringenti i contratti a termine, e bisogna tornare a dare garanzie e sicurezza ai lavoratori, sia per le imprese maggiori (ripristinando le tutele dell’articolo 18), sia per quelle minori, sia infine nelle catene degli appalti e dei subappalti, rispristinando la responsabilità in solido del committente: a partire dai quesiti referendari promossi ad aprile dalla Cgil. Occorre poi dare sicurezza ai lavoratori delle piattaforme, che devono avere gli stessi diritti dei lavoratori dipendenti, a partire dall’ottimo lavoro svolto in Europa, su questo, dai parlamentari europei del Partito Democratico; e bisogna riconoscere pienamente, per tutte e per tutti, il diritto alla disconnessione. Occorre, insomma, tornare a dare dignità, reddito, sicurezza al lavoro: perché è giusto, perché è questa la prima missione di ogni forza progressista e di sinistra riformista, le cui radici sono innanzitutto nel mondo del lavoro, e perché crediamo che faccia bene oggi all’Italia: aiuta a renderla un paese più innovativo e moderno, oltre che più equo, promuovendo le imprese migliori e una competizione di qualità, e non di costo, come ogni economia avanzata dovrebbe fare. Precarizzare e togliere diritti al lavoro è stata invece, ed è, una delle cause del declino del nostro paese: abbiamo visto tutti le conseguenze di questa politica, negli ultimi trent’anni. Puntare sulla qualità e dignità del lavoro è un antidoto indispensabile contro il declino economico, e anche sociale, culturale e demografico, del nostro Paese. E crediamo sia questa la missione del Partito Democratico.


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