L’Unione Europea non ha mai avuto un grande rapporto col concetto di limes; in perenne – pacifica – espansione, la burocrazia bruxellese ha dedicato una intera direzione generale all’allargamento ma, fino a una quindicina d’anni fa, aveva sempre eluso il controllo dei propri confini, demandando l’incombenza alle forze, se non all’arbitrio degli stati membri.
Negli ultimi anni questo approccio è cambiato in maniera radicale: la pressione migratoria dal Nord Africa e da un Medio Oriente sempre più in fiamme ha imposto alla Commissione Europea un cambio di passo: parole come frontiera, controllo, limite agli accessi, accoglienza e respingimenti sono entrati nel lessico comune non solo di una certa politica ma pure nei policy paper di cui le istituzioni europee si nutrono.
Artefice di questa rivoluzione è stata la figura centrale dell’ultimo ventennio europeo: Angela Merkel. La cancelliera tedesca da un lato ha puntato sull’orgoglio umanitario dei suoi concittadini (wir schaffen das, ce la possiamo fare) accogliendo milioni di profughi siriani in fuga dalla barbarie di Assad e dell’ISIS, dall’altro è stata l’architetto di un accordo con il presidente turco Erdogan, la Turkey Refugee Facility, che ha praticamente bloccato la cosiddetta rotta balcanica grazie all’efficace lavoro delle guardie di frontiera turche già nella zona del Kurdistan. Quanto questa efficienza si sia ottenuta rispettando i diritti umani non è dato saperlo, anche se i rapporti di varie ONG non lasciano ben sperare.
Il patto Merkel/Erdogan, ampiamente finanziato dal bilancio europeo, è diventato così lo schema di lavoro su cui la Commissione ha impostato la sua intera strategia cercando, con risultati alterni, di riproporlo anche in contesti sociali, geopolitici ed economici del tutto diversi.
L’ultimo tentativo in questo senso è il Memorandum of Understanding firmato da Ursula Von der Leyen e il Presidente tunisino Kais Saied sotto gli auspici della Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni.
In cambio del contenimento dei flussi migratori in partenza dal suolo tunisino (in particolare dalla zona di Sfax, la più vicina in linea d’aria all’isola di Lampedusa), l’Unione Europea si impegna a fornire al paese africano supporto, progetti di sviluppo e, più in generale, sostegno politico a un governo e un presidente alle prese con gigantesche difficoltà interne.
La Tunisia è infatti devastata da una tremenda crisi economica: le casse dello stato sono pressoché vuote, la disoccupazione sfiora il 25% e l’inflazione sui beni di prima necessità è ben oltre il 20% (nonostante le istituzioni locali la indichino al 12%). Il governo non ha potuto fare altro che rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che, però, condiziona l’eventuale supporto a una serie di riforme che trovano l’opposizione del mondo sindacale e dello stesso presidente.
Eletto in maniera trionfale (ha superato il 70%) su una piattaforma anticorruzione con più di una affinità con i partiti populisti di destra europei, Kais Saied è una figura molto singolare: professore di diritto costituzionale senza particolari affinità politiche, ha attraversato l’era Ben Alì senza esporsi e non ha partecipato in maniera attiva alla rivoluzione del 2011. Soprannominato “Robocop” dai media, parla un arabo forbito molto lontano dai dialetti tunisini e, fino a due anni fa, non pareva nascondesse tendenze autoritarie. Poi, con una escalation che ha colto di sorpresa partiti, giornalisti e addirittura i grandi potentati economico/finanziari, ha sciolto il parlamento, messo in carcere Rached Ghannouchi (il leader più rappresentativo dell’islamismo tunisino) e iniziato un giro di vite culminato con lo scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura.
La Tunisia, oggi, è un curioso ircocervo a metà strada fra la democratura, il populismo e i classici governi autoritari mediorientali e africani.
Saied, infatti, non trova il fondamento del suo potere nel controllo capillare degli apparati statali o nella forza militare (al contrario di Algeria ed Egitto l’esercito tunisino è storicamente poco politicizzato) ma in un consenso diffuso soprattutto nelle zone più rurali del paese e in un pezzo – silenzioso ma influente – di certa borghesia cittadina che non ha visto con troppo dispiacere la messa alla porta di Ennahda e degli islamisti.
Dire quanto questo assetto possa durare è però molto difficile: il Memorandum siglato con la Commissione Europea è sotto accusa sia da parte del Parlamento Europeo (che critica la totale mancanza di clausole legate al rispetto dei diritti umani, civili e democratici) sia dal Consiglio (che, invece, ha forti dubbi riguardo l’assenza di clausole economiche più stringenti). Nel frattempo lo stesso Saied ha assunto comportamenti sempre più erratici e imprevedibili, arrivando addirittura a negare il visto d’ingresso a una delegazione di eurodeputati componenti della Commissione affari esteri che doveva visitare la Tunisia. Un gesto inaccettabile dal punto di vista diplomatico che arriva a nemmeno due mesi dalla firma del MoU.
In questo quadro il destino della Tunisia e del suo rapporto con l’Europa appare avvolto nella nebbia: il paese si troverà ben presto a dover scegliere tra il default e le condizioni del FMI, con un presidente inaffidabile e una classe politica d’opposizione totalmente delegittimata da dieci anni di errori.
Si tratta di una situazione grave, tanto più per un paese così prossimo al nostro continente e nello specifico all’Italia.
La situazione tunisina, nella sua drammaticità, conferma la debolezza enorme dell’approccio europeo non solo alla questione migratoria ma anche alla cooperazione per lo sviluppo: chiudere gli occhi davanti alle violazioni dei diritti umani o alle tendenze autoritarie di questo o quel satrapo non è mai la soluzione giusta, anzi, rischia di legare alle vicende personali di un singolo, o di un piccolo gruppo di dirigenti politici, interi disegni geopolitici.
L’Italia e l’Unione Europea dovrebbero invece essere i campioni di un modello di sviluppo e sostegno che, passando per il rispetto dei diritti e il rafforzamento del processo democratico, riesca a garantire un percorso di vera emancipazione. Una Tunisia, ma più in generale un Nord Africa stabile, con democrazie funzionanti e un’economia solida è un interesse per la regione, certamente, ma è pure un nostro interesse nazionale (ed europeo) cruciale.
Nicolò Carboni ha lavorato al Parlamento Europeo ed è stato capo della segreteria del Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale. Ha scritto per Treccani, ItalianiEuropei, Pandora e l’edizione italiana di Esquire.
Componente della Direzione Nazionale del Partito Democratico, ha accompagnato Peppe Provenzano, responsabile esteri del PD, e Laura Boldrini, già presidente della Camera dei Deputati, nel viaggio a Tunisi del 12-14 settembre. Fa parte del direttivo di Rosa Rossa.
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