Povertà, divario Nord-Sud e intervento pubblico. Sulla cultura politica della sinistra, 2023

da | Ago 1, 2023 | Articoli | 0 commenti

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di Enrica Morlicchio

Povertà, divario Nord-Sud e intervento pubblico. Sulla cultura politica della sinistra.

Sia sul tema della povertà che su quello del Mezzogiorno è in corso un cambiamento di cultura politica sorprendente in un paese come l’Italia portata ad esempio di “povertà integrata” e con una solida cultura giuridica costituzionale, cambiamento che purtroppo ha visto come protagonisti anche dirigenti politici che dichiarano di appartenere all’area progressista e di sinistra.

Riguardo alla povertà si sta assistendo ad una stigmatizzazione del povero che non ha fatto salvo nessuno: dal lavoratore che rifiuta condizioni di sfruttamento inaccettabili, additato come scansafatiche e amante del divano al working poor che pure si spacca la schiena ma non riesce a mantenere la famiglia; dall’anziano che fruga nei cassonetti soggetto a daspo urbano al “Neet” del quale si dice solo che non studia, non frequenta (costosissimi) corsi di qualificazione professionale privati e non lavora ma non che potrebbe avere già conseguito un titolo di studio e essere attivamente in cerca di lavoro (condizione comune a molti di essi). Tutti colpevoli e anzi tacciati finanche di illegalità se non hanno adempiuto all’obbligo scolastico, in un rovesciamento delle responsabilità nei rapporti tra Stato e cittadino del tutto illogico. Ai poveri non si riconosce neanche più una identità di classe. È vero che, come suggeriva Simmel, i poveri possono provenire da ogni classe sociale e sono identificati come tali nel momento in cui entrano a far parte dei circuiti dell’assistenza. Ma non si diventa poveri solo per sfortuna individuale. L’aumento dei working poor sta a ricordarci la centralità del mercato del lavoro e della condizione occupazionale nel determinare una situazione di povertà familiare. Appellare i poveri come gli “ultimi”, contrapponendoli ai “penultimi” (presumibilmente il ceto medio impoverito) rimanda a categorie vetuste come quelle degli “umili” occultando i fenomeni di sottoremunerazione del lavoro e le questioni di giustizia sociale che pure dovrebbero stare a cuore tanto ai marxisti quanto ai liberal-democratici.

Parallelamente a ciò, nel dibattito sui finanziamenti straordinari legati alla attuazione del PNRR, sono ritornate in auge teorie sociologiche sui divari di rendimento istituzionale come espressione della inferiorità antropologica del Mezzogiorno. Ma già nel 2014 la Svimez aveva avvertito come fosse in atto un processo di desertificazione del Mezzogiorno conseguenza di una natalità inferiore a quella già bassa dell’Italia e della continua emigrazione verso le altre regioni non compensata da flussi in ingresso. Io amo molto il termine desertificazione perché indica qualcosa di più del declino demografico e della emigrazione dei giovani che oggi vengono definiti “altamente performativi”, e un tempo indicati come “cervelli in fuga”. Riguardo a quest’ultima i dati sono noti. Nel decennio 2012-2021 il Mezzogiorno ha perso circa 525mila residenti (saldo migratorio interno), risultato della differenza tra quelli che si sono spostati nelle regioni del Centro e del Nord (circa 1 milione 138mila i movimenti in uscita dal Sud e dalle Isole verso il Centro-nord) e quelli che sono tornati o andati per la prima volta al Sud (circa 613mila). Un quarto del saldo migratorio interno è costituito è vero da giovani laureati (25-34 anni), e la permane una quota significativa di emigrazione di persone, giovani e meno giovani, che non possono aspirare a posti di prestigio nella accademia, nella alta finanza e nelle multinazionali di informatica. Ma non siamo solo in presenza di un esodo migratorio.

Svimez stima che nel 2022, per la prima volta nella storia delle migrazioni interne italiane, la quota di laureati sul totale degli emigrati meridionali supera quelle relative a titoli di studio inferiori. Tuttavia Il declino demografico senza una infrastrutturazione economica e fisica adeguata e permanendo le proposte di autonomia differenziata produce rischi di implosione della struttura sociale. In un articolo su Neodemos del 29 novembre 2022 Massimo Livi Bacci si chiedeva perché lo svuotamento demografico del Mezzogiorno non attenua il dualismo economico e sociale come è accaduto invece dopo tre processi: l’indebolimento delle reti informali di solidarietà e dell’associazionismo, la precarizzazione e deregolazione del mercato del lavoro, la limitatezza dei sistemi locali di welfare. L’effetto di concentrazione produce demoralizzazione, incapacità di azione collettiva e di intravedere una possibilità di cambiamento anche a livello individuale. È questa una affermazione che, sebbene secondo un approccio diverso, richiama alla mente questioni sollevate da Oscar Lewis nella sua teorizzazione della cultura della povertà. La spiegazione che ne dà Wilson è però di tipo strutturale e non culturale. Per lui l’elemento centrale non è come in Lewis l’interiorizzazione di una subcultura intrisa di fatalismo che si trasmette da una generazione all’altra impedendo di sfruttare le opportunità di miglioramento, ma l’effetto di concentrazione in virtù del quale un adolescente dell’iperghetto difficilmente avrà occasione di entrare in contatto con qualcuno che possa rappresentare un modello di ruolo positivo nello sviluppo della sua personalità, o che sia in grado di procurargli le informazioni per ottenere un lavoro o indicargli obiettivi di cambiamento sociale. Piuttosto sarà portato a sviluppare relazioni soltanto con soggetti altrettanto svantaggiati che non sono in grado di aiutarlo a uscire dalla disoccupazione e dal contesto segregante del quartiere. Per questo motivo Wilson sottolinea il fatto che un quartiere nel quale le persone sono povere ma occupate è differente da un quartiere nel quale le persone sono povere ma senza lavoro. Nel primo caso la povertà infatti riguarda fasce di popolazione che hanno mantenuto un rapporto con il mercato del lavoro, nel secondo caso invece è proprio la marginalità rispetto al mercato del lavoro a costituire il principale fattore di impoverimento e di impotenza. Le analisi di Wilson, se applicate su scala più ampia, aiutano a spiegare la desertificazione del Mezzogiorno. Se qui i fenomeni di devianza giovanile, quella che Marco Rossi-Doria chiama la “disperanza”, il disinvestimento familiare nella scuola sono stati più contenuti rispetto all’iperghetto è stato solo in virtù di una miriade di associazioni del Terzo Settore che sono stati in grado di mantenere attivi desideri, aspettative, progettualità nei contesti più difficili. Ma la loro sostenibilità nel lungo periodo può essere assicurata solo da una efficace e continua azione dello Stato senza la quale esse saranno come le piante grasse che nel deserto producono fiori bellissimi e poi muoiono per lo sforzo di compiere un atto così vitale in un ambiente ostile.


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