Colloquio con Lukacs, nella rubrica “Il classico in discussione” dedicata a Lukàcs, Indiscipline 2/2023

da | Ago 1, 2023 | Articoli | 0 commenti

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di Laura Pennacchi

Colloquio con Lukacs (Laura Pennacchi, nella rubrica “Il classico in discussione” dedicata a Lukàcs, Indiscipline 2/2023)

Ero partita in treno da Roma la mattina presto di uno dei primi giorni di agosto del 1970 e avevo viaggiato un intero giorno e un’intera notte, arrivando a Budapest poco dopo l’alba. A Zagabria la locomotiva italiana era stata sostituita con una del posto, a vapore, cosicché dai finestrini aperti erano entrate nuvole di fuliggine che mi avevano fatto scendere alla stazione centrale magiara nera come uno spazzacamino, al tempo stesso spaventata e felice per la borsa di studio che grazie a un interscambio tra il Ministero degli Esteri italiano e quello della Cultura ungherese avevo avuto per incontrare Lukàcs, sul cui Storia e coscienza di classe1 stavo preparando la tesi di laurea.

La curiosità e una vera e propria passione per Lukàcs erano maturati in me, prima con la lettura di L’anima e le forme e Teoria del romanzo, parte del corso tenuto da Alberto Asor Rosa, poi seguendo nel 1969 il lungo seminario su “Il sinistrismo teorico degli anni ‘20” organizzato a “La Sapienza” dallo stesso Asor con Massimo Cacciari, Toni Negri, Mario Tronti. Il contatto con l’incandescente “materia storico-spirituale”2 contenuta in “Storia e coscienza di classe” mi spinse a dedicarvi la mia tesi di laurea in “Lettere e Filosofia” (erano tempi in cui all’Università ci si entusiasmava di tutto e si poteva fare di tutto …), nonostante le perplessità dei già citati organizzatori – “troppo eticismo”, dissero – e dello stesso Asor (mio relatore) che, tuttavia, da “buon cattivo maestro” quale amava definirsi, dopo aver verificato la solidità del mio convincimento, fu prodigo nel sostenermi con i suggerimenti e gli aiuti formativi necessari.

Alle prime ore del mattino, spaventata e felice mi recai, dunque, al Ministero della Cultura di Budapest. Spaventata avrei dovuto esserlo molto di più: in realtà non mi rendevo bene conto che, per quanto l’Ungheria a quei tempi avesse fama di essere un paese del socialismo reale più aperto degli altri, avevo pur sempre varcato la vasta e temibile “cortina di ferro” di cui si parlava con apprensione in tutto il mondo. All’ufficio competente del Ministero della Cultura apparvero stupiti e imbarazzati dalla lettura delle carte della mia borsa di studio e, non sapendo cosa fare, mi tennero in attesa per tutta la giornata in un stanzetta buia e disadorna e, alla fine, si risolsero a dirmi che non avrei potuto incontrare Lukàcs il quale, in Germania per ricevere il premio Goethe, non sarebbe tornato a Budapest se non a settembre, quando, scaduta la mia borsa che durava 40 giorni, avrei dovuto essere già rientrata a casa. Mi dissero inoltre che sarei stata inviata per venti giorni all’Università di Keszthely sul Balaton per seguire un corso di “economia agraria” e che il restante del tempo l’avrei trascorso a Budapest, senza incontrare Lukàcs ma visitando monumenti e biblioteche, domiciliata presso una famiglia tenuta saltuariamente, secondo le disposizioni del regime, ad alloggiare ospiti stranieri.

Nel lungo viaggio in treno attraverso l’Europa orientale avevo guardato alberi e case e fili della luce succedersi gli uni agli altri, pianure sterminate intervallate da montagne viola e colline verdi, cittadine colorate seguite da villaggi scuri e poveri. L’atmosfera sul Balaton non era diversa, un che di triste sembrava aleggiare su tutto, gli operai dalla DDR, in ferie con le loro famiglie, si gettavano

1 G. Lukàcs (1922), Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano, 1967
2 G. Cesarale, Introduzione alla nuova edizione di G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe Pgreco, Milano 2022

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silenziosi nelle acque torbide del lago che sembrava in molte parti un grande acquitrino e dai cui bordi erbosi solo raramente spuntava un campanile o un paesino ridente. L’agosto fresco e il cielo spesso plumbeo mi riportavano continuamente alla mente il clima che doveva aver vissuto Lukàcs negli anni ’20 del primo dopoguerra quando esperienze decisive erano state ormai vissute e compiute: rivoluzione bolscevica russa, rivoluzione dei consigli in Germania, repubblica dei consigli in Ungheria, Marzaktion, e tutte, tranne la rivoluzione bolscevica, in modo tragicamente fallimentare.

Mi diveniva progressivamente chiaro che ciò che più mi attraeva del magma rielaborato da Luckàcs era proprio quanto era più criticato dai marxisti dell’”autonomia del politico”: nella sua rielaborazione la convinzione originaria secondo cui “il potere di ogni società è essenzialmente un potere spirituale e da esso ci può liberare soltanto la conoscenza” (p. 325) era stata portata fino ad estreme conseguenze, consistenti nell’identificare il fondamento di un processo rivoluzionario in futuro vittorioso nella “riforma della coscienza” (p. 321), con una marcata insistenza sulla necessità della “rottura della falsa coscienza” e del disvelamento della fallacia delle ideologie, sulla urgenza di un’autoeducazione del proletariato che lo mettesse al riparo dal contagio ideologico delle forme capitalistiche di vita. Qui confluivano elementi della riflessione di Rosa Luxenburg che avevano assunto una funzione decisiva nel discorso di Lukàcs: la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo. E qui, con la riabilitazione della coscienza e della soggettività, avvertivo che si era giocata una partita decisiva intorno a quella che già agli esordi del Novecento aveva voluto configurarsi come un’esaltazione della “morte del soggetto”. Non per caso, grosso modo nello stesso arco di tempo, Rosa Luxenburg, in carcere per la Rivoluzione spartachista dei consigli del 1919, poco prima di essere assassinata aveva scritto che “la cosa principale è essere buoni, semplicemente essere buoni, è ancora più importante di avere ragione …” e Lukàcs, oltre la scissione tra “anima” e “forme”, aveva vagheggiato il miracolo della bontà, “qualcosa come una conoscenza degli uomini che irradia penetrando in tutto e in cui soggetto e oggetto vanno a coincidere”3

Tornata a Budapest passavo interminabili giornate in biblioteca e nei giardini quasi deserti dell’Università. Finché feci amicizia con dei giovani studenti i quali, messi al corrente della infruttuosità fin lì della mia ricerca, senza tanti complimenti mi spiegarono che i burocrati ungheresi si erano presi gioco di me, nascondendo sotto la falsità di un suo impossibile viaggio in Germania, la loro precisa volontà di impedirmi di incontrare Lukàcs e di mantenerlo nell’isolamento a cui da molti anni lo avevano condannato. Fu così che, trovato con l’aiuto dei ragazzi su un semplice elenco telefonico l’indirizzo dell’abitazione di Lukàcs, la raggiunsi con un taxi, salii al quinto piano, e suonai al campanello, inaspettatissimo ospite. L’anziana governante che mi venne ad aprire ascoltava senza capire le mie convulse parole in francese, quando, dal fondo del corridoio, un omino piccolo e canuto mi venne incontro, ascoltò quel che dicevo, lesse le lettere di presentazione che avevo con me, e concluse serafico: “io il pomeriggio lavoro e studio, ma la mattina la dedico a discutere con gli

3 G. Lukàcs, Sulla povertà di spirito. Scritti (1900-1918), Cappelli, Bologna 1981, pp. 103-105

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studenti, venga domattina e poi per vari giorni avremo modo di parlare, dans notre mauvais francais, di tante cose”.

Il francese mauvais era il mio, non certo il suo, ma questo non impedì a me per tutta una settimana di fargli una miriade di domande e a Lukàcs di rispondere con tenace pacatezza e incredibile serenità, con l’unica condizione di utilizzare quanto venivamo discutendo solo per la tesi, non a scopi giornalistici. Così per più di cinquant’anni sono rimasti sepolti nei miei appunti e nelle pagine della tesi il suo appassionato interesse ai movimenti giovanili che in quegli anni riempivano le piazze di tutto il mondo e il suo instancabile autointerrogarsi sulla fase che stavamo infine vivendo. Manteneva ferma la autocritica all’hegelismo e all’idealismo di “Storia e coscienza di classe” pervaso da un “messianismo etico”, ma non gli sfuggiva quanto la sua teoria della “forma merce” avesse influenzato, insieme a L’uomo a una dimensione di Marcuse, l’esplosione del ‘68 e quelle successive. L’enigma della merce4 sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone, riceve il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.

Il Lukàcs ormai talmente anziano da essere prossimo alla morte – morì nel 1971, l’anno successivo – non disconosceva le problematiche del feticismo, della reificazione e dell’alienazione nate dalla sua giovanile teoria della merce. L’alienazione ha due sensi, come “feticismo della merce” (perché la merce appare dotata di qualità non sensibili ma sovrasensibili che la rendono assimilabile a un feticcio) e come “estraneazione” (perché la subordinazione delle relazioni tra gli uomini al valore delle merci genera un mondo che si contrappone a loro e li domina). Il meccanismo della reificazione e dell’alienazione nasce dal lavoro (reificato e alienato) ma non si ferma ad esso, va al rapporto con la natura (che finisce con l’apparire un corpo estraneo da usare e saccheggiare) e con la specie umana, giacché è la vita stessa dell’uomo, trattata non più come fine ma come mezzo, a subire una drammatica amputazione e, assoggettata alla razionalità strumentale e all’utilità in quanto legge che governa le merci e le cose, a contrapporsi al vivente. La società intera si separa dai suoi componenti ridotti a cose, la colonizzazione del mondo compiuta dalla merce trasforma ogni crescita (con l’apparente aumento del controllo tecnico sulla natura) in impoverimento e perdita di sé, aberrazione del consumo, alienazione. Il giovane Lukàcs derivava direttamente da Marx la sua teoria del feticismo della merce, così come mutuava da Weber la sua visione della razionalizzazione quantitativa capitalistica, la sua intrinseca “calcolabilità” (anche se con me l’anziano Lukàcs minimizzò l’importanza di Weber per la sua formazione: “non c’è nulla di Weber – mi disse – che

4 G. Lukàcs (1922), Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, Milano, 1967, pp. 108 e 123. Stefano Petrucciani (È possibile una teoria critica delle forme di vita? in “Iride”, n. 77, gennaio-aprile 2016) ricorda che Lukàcs è stato il primo ad imporre il tema della reificazione “all’attenzione della filosofia europea”, influenzando anche lo Heidegger di Essere e tempo

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non ci sia già in Marx che mi abbia influenzato”). Compiva, però, una mossa in più: correlava “feticismo” e “calcolabilità” dando a entrambi un carattere più ampio. Il connubio operato tra Marx e Weber, infatti, gli consentiva lo slancio per investire pienamente della forza della razionalizzazione quantificatrice, oltre alla sfera produttiva cui veniva comunque attribuita una fondamentale importanza, quella riproduttiva: la sovrastruttura ideologica, la letteratura, il diritto, l’economia politica, la filosofia. Tutto ciò suscitò grande scandalo nei marxisti ortodossi dell’epoca e nei successivi: questo tipo di modello interpretativo vedeva luxenburghianamente la contraddizione fondamentale del sistema di produzione capitalistico come contraddizione del capitale stesso e poneva l’elemento portante della socializzazione capitalistica non nel rapporto antagonistico di classe tra capitale e lavoro, ma nella struttura di merce in sé, la quale porta a una fortissima integrazione tra “economico” e “sociale” e al dominio dell’“economico”.

Nel compiere questa analisi Lukàcs faceva emergere fin dagli anni ’20 elementi importanti anche per il presente. Infatti, tanto più oggi il senso della sua teoria della reificazione – che dà un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura – consiste nella scoperta delle “forme mediatrici della coscienza” all’interno della “costruzione di una società articolata in senso puramente economico”, posto che il capitalismo è “il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimilazione economica della società nella sua interezza”. Lo sviluppo fondato su un tipo particolare di lavoro – il lavoro astratto, uguale, comparabile – si afferma come “razionalizzazione fondata sul calcolo, sulla calcolabilità”5, la quale, mentre mette sempre più “da parte le proprietà qualitative umano- individuali del lavoratore”, distrugge “l’unità organico-irrazionale che è sempre condizionata in senso qualitativo del prodotto stesso”. Il processo di razionalizzazione da una parte provoca una perdita di connessione tra esperienze empiriche diverse, dall’altra “si trasforma in una riunione obiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità”. La divisione sociale del lavoro fa saltare la differenza “tra l’operaio di fronte alla singola macchina, l’imprenditore di fronte a un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza”, differenza che diventa solo di grado, “puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza” (p.127/128). Pertanto, il giovane Lukàcs coglieva sia il soggiacimento di tutte le classi alla reificazione, sia un elemento fondamentale di quel processo di proletarizzazione che contraddistingue la società del capitalismo moderno, vale a dire che anche il lavoro più spirituale è ridotto a merce. Al tempo stesso non defletteva dalla sua ricerca umanistica: “ciò che fine a questo punto ha accompagnato come mera ‘ideologia’ il corso necessario di sviluppo dell’umanità, la vita dell’uomo come uomo nel suo riferirsi a se stesso, agli altri uomini, alla natura, può diventare vero contenuto di vita dell’umanità. L’uomo come uomo è socialmente nato” (p. 315).

Nella grande e vecchia casa in riva al Danubio l’aria immota di agosto faceva risuonare le parole con cui tentavo di sintetizzare l’irrinunciabile apporto per me di “Storia e coscienza di classe”: – la dialettica razionalità/irrazionalità, con una insopprimibile pulsione all’irrazionalità del capitalismo

5 Ritroviamo echi di questa interpretazione in A. Supiot, La Gouvernance par les nombres. Cours au College de France (2012-2014), Fayard, Paris 2015

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intrinsecamente tendente all’autocannibalizzazione e all’autodistruzione; – la voracità espansiva della merce che, estendendo la mercatizzazione anche a sfere non di mercato, supera il determinismo di classe e si estende ai ceti medi e al “lavoro intellettuale”; – le nuove forme di reificazione e di alienazione che ne discendono e che reclamano un profondo recupero dell’umanesimo; – la denunzia delle incongruenze della razionalità strumentale e del feticismo incorporato anche nella scienza e la necessità di criticarne la esasperata logica formalizzante e matematizzante volta a renderla naturalizzata e pertanto indiscutibile, senza, però, cadere nell’irrazionalismo e nel decadentismo che caratterizzò l’Europa negli anni ’30 e nel secondo dopoguerra6. Alle mie certezze Lukàcs opponeva dubbi e interrogativi, in particolare si chiedeva dove mai fosse finita nella nostra contemporaneità la “figura della crisi”: “Gli ultimi trent’anni del secolo – diceva – sono stati gli anni del capitalismo senza crisi e, quel che più conta, senza spiegazione da parte marxista del perché non ci sia crisi. Si può forse dire – aggiungeva – che viviamo una situazione preideologica come la viveva la classe operaia prima di Marx. La differenza tra oggi e allora è che però Marx è effettivamente esistito: se con Blanqui non era possibile costituire un forte movimento operaio, oggi, dopo Marx, questa possibilità esiste e tuttavia non diviene reale”.

A quel tempo io non avevo ancora capito la grandezza di Beveridge, di Keynes, del welfare state, non seppi quindi fornirgli il materiale argomentativo relativo alla incredibile capacita dinamica di morfogenesi del capitalismo, non contradditoria con le sue pulsioni autodistruttive e anzi alimentata da esse. Del resto, di lì a poco, nel 1974, arrivò il primo shock petrolifero restituente la sua pregnanza alla parola “crisi”, ma Lukàcs non fece in tempo a vederlo. La sua analisi, però, racchiudeva molti strumenti per interpretare l’incipiente neoliberismo, che tuttavia, caduto il suo pensiero nell’oblio, rimasero inutilizzati. Vedemmo poi che la tarda modernità genera una ulteriore forma di alienazione, basata sullo sfaldamento dei confini tra reale e virtuale, la confusione tra vero e falso, la seduzione di un consumo infinito, il primato attribuito all’apparire e la separazione dai propri bisogni autentici, tutti fenomeni alimentanti la passività, l’atomismo, l’apatia, l’inerzia. Ma capimmo anche che l’alienazione ha profondamente a che fare con il valore, il significato, la libertà, la vita sociale e istituzionale: dunque, nel suo legame con il concetto e la prassi della libertà, quello di alienazione continua a proporsi come concetto squisitamente moderno, anzi, per riprendere le parole di Rahel Jaeggi7, come “autocritica del moderno” in quanto ridotto a “relazione in assenza di relazione”.


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